Rivolgersi a un oracolo era una pratica molto diffusa nell’Egitto tolemaico e romano, dove questa pratica è attestata almeno dal XVI secolo aev. Le domande riflettono significativamente le preoccupazioni quotidiane degli abitanti della cora egiziana, i loro timori per il futuro, i problemi famigliari e professionali, di denaro e, soprattutto, di salute.
Busto di Serapide in alabastro, II sec. ev ca. Via The Merrin Gallery |
Queste pratiche oracolari sono documentate fin dal Nuovo Regno quando, in occasione delle “uscite” di un dio nei giorni di festa (cioè durante le processioni), i fedeli potevano accostarsi alla barca che sosteneva il tabernacolo con la statua divina e interrogare il dio (procedimento ampiamente documentato anche nel culto di Amon a Tebe). Il movimento della statua indicava il senso della risposta.
Vi erano anche altri sistemi di consultazione, come deporre davanti al dio una richiesta scritta alla quale si rispondeva ugualmente per iscritto; il dio infine, ma sono casi più rari, poteva anche “parlare” direttamente attraverso un medium: nel Racconto di Unamon (inizi I millennio aev) il dio Amon si “impossessa” di un sacerdote e lo fa entrare in trance perché trasmetta le sue volontà.
— Sulla letteratura magica greco-egizia del IV secolo leggi anche: La maledizione di Artemisia
Tecniche oracolari
Si poteva richiedere il responso di un dio attraverso vari metodi. La domanda scritta resta il procedimento più usato e le divinità alle quali ci si rivolge sono Amon, Serapide, i Dioscuri e, anche, gli dei-coccodrillo del Fayum.
Spesso, tuttavia, le domande erano rivolte a divinità minori o a forme locali di grandi dei come l’Amon di Tashenit, di Pe-khenti o di Bakenen, espressioni regionali del grande dio di Tebe.
Dall’epoca ellenistica al periodo più tardo si mantiene la maggior parte delle pratiche antiche e se ne creano di nuove, grazie ai processi di scambio e reciproca influenza con la cultura greca in particolare. Molto diffusa nella Grecia del IV secolo aev, quando fioriscono le attività del santuario del dio-medico Asclepio a Epidauro, la consultazione del dio durante il sogno era un procedimento oracolare ben attestato In Egitto.
Nell’attesa che il dio si manifestasse in sogno promettendo una guarigione e spesso indicando la “ricetta” da seguire per ottenerla, si consultavano appositamente per problemi di salute Serapide a Canopo (dove si praticava l’incubazione terapeutica), a Menfi e probabilmente anche a Kysis, sempre Serapide e Bes ad Abido, Imhotep, Amenhotep e Igea a Deir el-Bahari, ancora Imhotep a Menfi.
Dalla prima metà del III sec. aev, in una cappella del tempio funerario in disuso della regina Hatshepsut a Deir el-Bahari, operava una triade di divinità guaritrici: Imhotep, l’architetto di Zoser (III dinastia), chiamato in greco Imhutes e assimilato ad Asclepio (anche lui un personaggio realmente esistito, assurto poi al rango di divinità), Amenhotep figlio di Hapu, e Igea, la Salute, dea greca figlia di Asclepio.
In questo santuario si poteva ricorrere anche alla consultazione diretta del dio: le persone che venivano a interrogare gli dei erano introdotte nella prima sala della piccola cappella, e qui potevano udire la voce degli dei che giungeva dal fondo del santuario attraverso un orifizio praticato nel muro che divideva i due ambienti — verosimilmente era un sacerdote che si faceva interprete delle divinità.
A Kysis, dietro il tempio di Osiride-Serapide e Iside — forse all’epoca già in disuso — era stata allestita una sorta di cappella, una piccola apertura nel muro di fondo che comunicava con il naos del tempio e che si presume servisse a trasmettere la voce del dio.
Tempio di Serapide (1857) a Maharaka, periodo tolemaico-romano. Via kiva.lib.utk.edu |
La visione in sogno
Gli oracoli emessi in sogno esprimevano la volontà degli dei, ma in forma spesso figurata: era necessario che qualcuno li spiegasse a chi ne beneficiava e tale funzione era affidata ai sacerdoti e ai professionisti dell’interpretazione dei sogni, gli oneirokritai.
La pratica dell’incubazione, benché di origine greca, risulta comunque ampiamente integrata nell’ambiente egiziano.
La Storia di Setne e del piccolo Siosiri, un racconto demotico che conosciamo in una versione della seconda metà del I sec. ev — ma altri capitoli risalgono all’età tolemaica —, narra che Mehitusekhet moglie di Setne, un sacerdote di Menfi, non potendo avere figli, trascorse la notte nel tempio di un dio, probabilmente Ptah o Imhotep. In sogno, la donna udì la voce del dio che le prescrisse di preparare un rimedio con le foglie della pianta di colocasia e di somministrarlo al marito. La donna si ritrovò presto incinta.
Secondo l’antica farmacopea araba d’Egitto, gli uomini sono soliti masticare questa radice (qulqâs), cruda o cotta, poiché pensano che produca molto sperma e che sia un potente afrodisiaco.
(F. Dunand, C. Zivie-Coche, Dei e uomini nell’Egitto antico (3000 a.C.-395 d.C.), L’Erma di Bretschneider 2003, pp. 334 ss.).
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