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Venus alma genetrix

Si dice di Tito Lucrezio Caro che fu indotto alla follia (in furorem) da un filtro d’amore e, dopo aver scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità concessigli, in un eccesso di delirio morì suicida a 43 anni (Girolamo, traduzione del Chronicon di Eusebio, con inserti da Svetonio, De poetis).

Venere Anadiomene, Jean Auguste Dominique Ingres, 1848, via Wikimedia Commons

La follia del poeta

Nonostante certi innegabili tratti di “pessimismo” che connotano la sua poetica cruda e concreta, quella del suicidio sarebbe con ogni probabilità una notizia diffamatoria, nata in ambienti cristiani nel IV secolo per screditare il suo malinconico scetticismo nei confronti delle cose divine: la religio è pratica empia e crudele che grava sull’umana esistenza con volto spaventoso – horribili aspectu, I, 65, e i commentatori cristiani vi scorsero l’estremo pericolo della storicizzazione della deorum opinio, l’idea che l’esistenza di un mondo divino miracoloso e inconoscibile sia in fondo solo una reazione umana allo stupore e, soprattutto, alla paura (V, 1161-1240).

Lucrezio nasce tra il 98 e il 90, secondo le scarne fonti che non danno notizia né del suo luogo di origine né del suo livello sociale. Lasciano intuire solo labili supposizioni, come quella che si deduce dal succinto giudizio espresso nella lettera Ad Quintum fratrem II 9.3 da Cicerone, al quale Lucrezio aveva affidato il suo poderoso lavoro poetico (7415 versi) per una revisione postuma, e che con limpida ammissione di stima attribuisce alla sua arte letteraria, seppur nel completo silenzio del resto delle sue opere filosofiche, “bagliori di talento” (multis luminibus ingeni).

Estetica epicurea

Il De rerum natura è un poema epico-didascalico in esametri, sei libri conservati integralmente in due codici del IX secolo, dedicato all’aristocratico Memmio. Incerte le date di composizione e pubblicazione: Memmio fu pretore nel 58, ma non si esclude che possa essere stato composto prima, e pubblicato forse tra il 46 e il 44. 

Autore erudito e rigoroso nelle scelte lessicali persino ruvide, nella struttura argomentativa e nelle insistenze appassionate e persuasive rivolte al lettore con duro, sprezzante, arduus furor (Stazio, Silvae II 7,76), sembra non voler perdere occasione per esortare ad avanzare lontano, oltre le fiammeggianti mura del mondo – extra ... longe flammantia moenia mundi, I, 72-73.

L’élite romana mantenne mediamente una certa diffidenza sospettosa verso quella dottrina che predicava la ricerca del piacere come sommo bene, dal rigore di Catone il Censore al più cauto “filtraggio” di Cicerone nei confronti delle correnti filosofiche d’oltre Egeo; un tentativo di arginare lo scetticismo di una posizione che, negando l’intervento degli dei nelle vicende umane, imbarazzava una classe dirigente la quale usava la religione ufficiale, epicentro fondante del mos maiorum, quale strumento di potere e coesione.

Tuttavia, si ha notizia di certi vivaci cenacoli epicurei nel I sec aev a Ercolano e Napoli, mentre divulgazioni epicuree circolavano con una certa fortuna tra gli strati meno elevati della società romana e, trasversalmente, in ogni rango, anche tra le donne.

Ars vs ratio

Nonostante una connaturata diffidenza dell’epicureismo verso l’espressione poetica, strumento del mito e quindi dell’errore, l’autore latino non rinuncia alle “belle lettere” per “cospargere col miele delle Muse” una dottrina (all’apparenza) amara come l’assenzio.

Ad essere invincibili, immutabili e infiniti non sono più gli dei immortali, ma le particelle infinitesimali di materia che, muovendosi nel vuoto, si aggregano e disgregano in forme diverse dando origine a tutte le cose, anche all’anima che è materia deperibile senza che alcun destino ultraterreno l’attenda... e al tempo stesso rendono possibile l’esistenza di molti mondi.

L’universo è regolato secondo leggi meccaniche, i sogni e le percezioni sensoriali sono simulacra, immagini reali ma intangibili dei desideri umani. Non è prevista alcuna cosmologia, ogni volontà divina è estromessa. 

Gli dei sono eídola, visioni notturne formate da atomi di natura sottilissima. Nel rinnovato interesse rinascimentale attorno al poema, La Venere di Lucrezio ispira alcune Stanze di Poliziano e da qui Botticelli per la sua Primavera.

Proemio

Un inno gioioso che si innalza in preghiera apre il poema che si sarebbe dovuto concludere con una nota rassicurante sulla descrizione delle sedi beate degli dei, come promesso nel libro V ma non mantenuto – forse per la mancata ultima revisione da parte dell’autore, o per un voluto contrappeso in un’opera che si apre in toni pacati e si chiude bruscamente con la descrizione della peste di Atene.

I primi 40 esametri sono una celebrazione dell’amore che tutto unisce e che solo in apparenza stride col generale scetticismo dell’impianto filosofico.

Venere è il “piacere cinetico”, voluptas in movimento di una forza che vivifica e sconfigge i tormenti e le avversità della guerra, come già per Empedocle di Agrigento fu la greca Afrodite simbolo della natura dispensatrice di vita.

Madre degli Eneadi, gioia di uomini e dei, Alma Venere che sotto gli astri in silenziosa corsa hai dato vita al mare sparso di navi e alla terra fertile di grano, per opera tua ogni creatura è concepita e vede, nascendo, la luce del sole.

Te, dea, fuggono i vènti, te e il tuo incedere fuggono le nubi del cielo, sotto i tuoi passi con grazia mutevole la terra germina fiori soavi, a te ridono le pianure del mare e il cielo che diffonde luce infinita.

A te e al tuo arrivo si volgono gli uccelli nell’aria, scossi dalla tua potenza, e si ravviva il soffio fecondo di zefiro appena si dischiude la primavera. Fiere selvagge e greggi addomesticate pascolano liete e attraversano i rapidi fiumi, ogni animale ti segue con incanto fin dove li vorrai condurre. Per mari e montagne e verdi pianure, ovunque infondi l’amore che perpetua le generazioni di ciascuna specie.

Tu sola governi la natura, senza di te niente cresce ed emerge alla luce, voglio che tu mi sia compagna mentre scrivo questi versi; infondi, o divina, eterno fascino alle mie parole. Placa gli effetti feroci delle guerre e concedi agli uomini una pace tranquilla, mentre Marte signore delle armi rovescia il capo sul tuo grembo, vinto dall’eterna ferita d’amore, sazia in te l’avidità dei suoi occhi e, supino, dalla tua bocca sugge il suo stesso respiro... (De rerum natura, I, 1-43)

Il De rerum natura è contenuto nei codici Oblungus e Quadratus, redatti ai primi del IX secolo nella Francia nord-occidentale in elegante minuscolo carolingio e ora conservati a Leida; furono riscoperti dal segretario apostolico Poggio Bracciolini nel 1418 durante un viaggio in Alsazia. Il testo è consultabile qui.

(Arrangiamento dalla trad. di A. Fellin, in Storia e testi della letteratura latina, vol. 2: La tarda repubblica e l’età di Augusto, a cura di G. B. Conte, E. Pianezzola, Le Monnier, Firenze 1992, pp. 63 ss.)

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