Passa ai contenuti principali

Le dee di Angkor

Khmer è un termine che si riferisce al principale gruppo etnico stanziato in Cambogia il cui impero è fiorito tra il IX e il XII secolo ev, in un territorio abitato sin dalla preistoria e che risentì anche sul piano religioso della diffusione della cultura indiana in tutto il Sud-est asiatico. Angkor (capitale, città sacra) fu il principale centro urbano di questo regno, e per estensione si usa per indicare il periodo di maggior sviluppo della civiltà Khmer. La storia di questo impero vasto e potente, che ci ha lasciato complessi templari monumentali, si divide in tre macro-periodi: Funan (primi sei secoli dell’era corrente), Chenla (VI-IX sec.) e Angkor (IX-XV sec.). Infine l’epoca post-Angkor, caratterizzata da un progressivo indebolimento del potere centrale a causa di dissidi interni e delle invasioni e interferenze dalla vicina Thailandia; il 1863 è l’anno della colonizzazione francese e segna la fine di un lungo declino.

Le più antiche sculture Khmer in pietra risalgono all’inizio del VI secolo ev, rinvenute presso il sito di Phnom Da, e ritraggono divinità induiste e buddhiste dallo stile decisamente originale rispetto ai modelli indiani. Tra il VII e l’VIII secolo, periodo che vede l’unificazione delle genti Khmer sotto un unico re, i maggiormente rappresentati sono Visnu e Shiva, che gli scultori spesso raffigurano come una divinità sola chiamata Harihara.

Uma 

Figura dall’aspetto maestoso, indossa una veste plissettata con ciondoli, secondo lo stile Angkor caratteristico del X secolo. Le tre linee ondulate incise sotto il seno e attorno al collo sono l’espressione di una bellezza ideale e generosa; mancano attributi specifici che possano identificarla, ma la forma cilindrica dell’acconciatura ne denota la natura divina, probabilmente di origine hindu, forse la dea Uma consorte di Shiva. (Via The Smithsonian’s Museum of Asian Art)


Devi

La statua – alta 127 cm – di arenaria risale alla prima metà del VII secolo ev e ritrae una divinità femminile. Non ci sono attributi per qualificarla come sposa di Shiva o di Visnu, ugualmente venerati insieme alle loro consorti, ma possiamo considerarla la personificazione della femminilità Khmer – lunghi lobi, naso piccolo, labbra piene e morbide, guance rotonde, la capigliatura raccolta in un alto cilindro ornato di raffinate decorazioni, le pieghe sull’addome e sul collo, fianchi larghi, seni tondi e ravvicinati. La dea indossa il sampot, tipica veste tradizionale dalla lunga gonna fermata da una cintura da cui scende una lunga piega centrale. (Via National Museum of Cambodia)

Prajnaparamita

Letteralmente, in sanscrito, “perfezione della sapienza” (necessaria per raggiungere l’illuminazione), Prajnaparamita è la madre di tutti i Buddha, riveste un ruolo importante nei rituali del Buddhismo Vajrayana e a lei è dedicato uno dei più importanti testi del Buddhismo Mahayana (Prajnaparamitasutra). Questa figura in lega di rame ritrae la dea secondo una iconografia tipica che si sviluppa in Cambogia nel tardo XII secolo: ventidue braccia e undici teste disposte a piramide, ognuna delle quali presenta una bocca sorridente, piccoli occhi a mandorla, lunghi lobi ornati da orecchini a forma di bocciolo, una corona ingioiellata e un segno a forma di diamante sulla fronte. La dea reca un manoscritto nella mano destra e uno stelo di loto nella sinistra; le altre venti braccia si aprono a ventaglio curvandosi verso l’alto, conferendo all’intera figura movimento e vivacità.

La statua, alta circa mezzo metro, risale al cosiddetto periodo Bayon, epoca in cui sotto Jayavarman VII (tra il 1182 e il 1218 ca.) il Buddhismo Vajrayana diviene religione ufficiale del regno e i rituali, sempre più complessi, richiedono immagini e simulacri della dea che siano facilmente trasportabili; Prajnaparamita viene identificata anche con la madre del re, e a entrambe sarà dedicato il tempio Ta Prohm costruito nel 1186. (Via The Smithsonian’s Museum of Asian Art)


Altri riferimenti: harvard-yenching.org; per approfondire: I. Harris, Cambodian Buddhism: History and Practice, University of Hawaii Press, 200

Commenti

Articoli correlati