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Lessico necromantico

Per necromanzia si intende una modalità di divinazione, variamente attestata dalla prima età classica alla tardoantichità, di cui ci si è iniziati a occupare con più attenzione solo nelle ultime decadi, parallelamente al generale e accresciuto interesse degli studi verso la magia nel mondo antico (J. Bremmer, Univesity of Groningen, Ancient Necromancy: Fact or Fiction?, in Mantic Perspectives: Oracles, Prophecy and Performance, 2015).

Dettaglio di Ritratto di monaco benedettino con teschio, A. van Dyck, via Wikiart

Grecia e Roma

Necromanzia è un termine moderno e in qualche modo generico che indica un gruppo di antiche pratiche, o presunte tali, che prevedono l’evocazione dei defunti. In greco, la più antica parola che si riferisce a questo genere di rituali è psichagogia e dello psichagogo sappiamo che, nella sua attività religiosa specifica, sapeva evocare gli spiriti dall’aldilà; presente già in Eschilo e negli Uccelli di Aristofane, lo psicagogo è menzionato da Caronte in un frammento satirico sofocleo. Nekromanteia, antenata lessicale più diretta del nostro termine, compare invece in epoca sorprendentemente tarda, la prima attestazione è della seconda metà del II sec. ev dell’astrologo egiziano Tolomeo (Tetrabiblos, 4.4.10). Ricorre con maggior frequenza negli scritti degli autori cristiani del IV secolo, mentre in lingua latina non compare prima degli inizi del III secolo con Porfirio e Lattanzio; mentre nello pseudo-clementino Recognitiones (I ritrovamenti) e nel commento all’Eneide di Servio viene menzionata insieme al sinonimo sciomantia (dall’omerico skiai, fantasmi).

Altro termine latino per la pratica di consultare i morti è necyomantea; riportato in greco nelle Tusculanae Disputationes, Cicerone lo scaglia come un’accusa in un’invettiva contro un suo rivale e sopravvive, con una discreta fortuna, in certi martiriologi della metà del III secolo; è con questo termine, infine, che dal II secolo viene convenzionalmente intitolato l’XI canto dell’Odissea. Dunque la necromanzia esisteva linguisticamente nel mondo greco e latino, ma è alla popolarità che acquista nella prima letteratura cristiana che dobbiamo la sua effettiva diffusione.

Proibite a Israele, le pratiche necromantiche sono tuttavia ben attestate come dimostra il celebre episodio della “strega di Endor” (1 Samuele 28). Nikiforovich Dmitry Martynov, 1857, Saul evoca il fantasma di re Samuele, via Commons Wikimedia

Ma cosa facevano i necromanti? Periandro tiranno di Corinto, su consiglio dell’oracolo di Thesprotia, evoca lo spettro della moglie Melissa che lui stesso ha ucciso gravida del suo terzo figlio — “Ho freddo” sono le prime delle poche parole che la tormentata anima pronuncerà: non le era stata data sepoltura. Avevano dunque, psicagoghi e necromanti, il compito di placare le anime inquiete? Probabile, ma non solo. Fin dal V sec. aev la letteratura abbonda di esperienze oracolari attraverso l’evocazione dei defunti e il celebre episodio di Odisseo e Tiresia, mirabile bricolage letterario che a sua volta attinge a una largamente attestata tradizione vicino-orientale, contribuisce in maniera decisiva a fissarne una rappresentazione collettiva. Ma non possiamo negare che nel linguaggio contemporaneo la necromanzia rimanda a una pratica nella quale sono coinvolte non tanto le anime, quanto i corpi: il ‘focus’ non ricade cioè sull’oggetto dell’evocare, ma sullo strumento della divinazione (teschi, cadaveri).

Sesto ed Erichto, accompagnata dai dèmoni, in una miniatura del XV sec. Via British Library

Se, infatti, in Omero nekyes e psichai (spettri, anime) sono solo ombre, eidola, immagini illusorie e immateriali, è soprattutto con la poesia latina della seconda metà del I sec. ev che si parla in maniera esplicita di corpi umani. Già Plinio aveva raccontato a tinte fosche la storia del console Sesto Pompeo il quale, durante la resistenza contro Cesare, fece uccidere un avversario che era stato catturato; ma l’uomo sembrava non essere morto: con la gola tagliata, per tutto il giorno continuava a rivelare messaggi dall’aldilà, ab inferis, a sostegno della propria causa politica. Così, nei Pharsalia di Lucano, la strega Erichto si aggira nel campo dopo la battaglia alla ricerca di un cadavere che avesse le mandibole in buono stato, in modo che potesse usarle per parlare. Trovatone uno appropriato, lo porta nella sua caverna dove ne riempie la bocca con sangue caldo...

Egitto, ambienti giudaici

Nella considerevole quantità di pratiche e incantesimi raccolti nella letteratura magica dell’Egitto romano, la necromanzia occupa una posizione di rilievo. Un’idea può essere data da un papiro conservato alla Bibliothèque Nationale dal titolo “Incantesimo di attrazione di re Pitys” (PGM IV) che nella Preghiera a Helios, con il suo formulario magico, recita all’incirca così:
“In questa ora io, Thenor, ti invoco, signore (Apollo-)Helios, invoco la tua protezione e dei tuoi santi angeli guardiani dell’ARDIMALECHA; ORORO MISREN NEPHO ADONAI AUEBOTHI ABATHARAI THOBEUA SOULMAI SOULMAITH ROUTREROUTEN OPHREOPHRI OLCHAMAOTH OUTE SOUTEATH MONTRO ELAT CHOUMIOI LATHOTH OTHET, ti prego di concedermi il potere sullo spirito di quest’uomo morto di morte violenta ... Qualora te ne andassi nelle cavità della terra fino al luogo dove risiedono i morti, nel pieno della notte manda da me questo spirito affinché attraverso la testa che ho conservato possa rivelarmi molte cose che voglio sapere, dicendo tutta la verità e con modi gentili, non arrecando a me alcun male ...”
Della stessa epoca, si ricordi tra gli altri l’episodio riportato nel libro XVIII dei Kerstoi di Giulio l’Africano dove la scena omerica viene rielaborata e ‛aggiornata’ con l’inserimento di un inno magico in cui sono menzionati Jaweh e Abraxas insieme agli egiziani Ptah, Ra e Anubi. Così, nelle Metamorfosi di Apuleio il propheta egiziano Zatchlas non solo è capace di evocare i morti per placarne l’irrequietezza, ma lo fa animandone il cadavere.

Il trattato Sanhedrin del Talmud babilonese conferma la doppia valenza del termine: necromante è sia colui che evoca gli spiriti che colui che consulta i teschi, e in entrambi i casi la pena è la lapidazione. La presenza concreta, e non solo letteraria, del radicamento di queste pratiche proibite è confermata dal cosiddetto Calvariae Magicae, una raccolta molto corposa di teschi sia frammentari che completi con iscrizioni ebraiche, ora ospitati nei musei di Berlino, Philadelphia e Mussaieff. Di epoca tarda come i papiri, le testimonianze epigrafiche e archeologiche dimostrano la diffusione della necromanzia nella sua accezione attuale a partire dalla tardoantichità e nella prima èra cristiana, quando assume definitivamente, nel variegato bagaglio di pratiche magiche al quale appartiene, una connotazione infernale.

Le fonti, sia letterarie che materiali, sono quindi numerose ma allusive. La necromanzia sembra attestarsi tuttavia come una nozione largamente accettata sia per la divinazione con le anime dei morti nella Grecia arcaica e classica, sia per l’evocazione degli spiriti attraverso il cadavere nella tardoantichità, percorrendo in mutevoli forme i secoli fino al rinnovato interesse del quale è stata oggetto in tempi più recenti da parte di filologi, classicisti e studiosi a vario titolo delle discipline umanistiche del mondo antico. 

Per approfondire: Necromancy from Antiquity to Medieval and Modern Times, in The Ritual Year, Vol.10: Magic in Rituals and Rituals in Magic (2015).

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