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Sette chicchi di melograno

Quando la giovane Proserpina venne rapita da Plutone e inghiottita in una nera voragine, sua madre Cerere iniziò una lunga e dolorosa ricerca per ritrovarla. Fu la ninfa Aretusa a rivelarle che la ragazza si trovava presso il potente re degli Inferi, triste sì, ma signora del mondo oscuro; l’aveva scorta durante il percorso che, scorrendo sotto la terra tra le acque stigie, compie tra l’Elide e la Sicilia: «A me la terra apre il cammino e, scorrendo in fondo alle grotte, sollevo il capo e rivedo le stelle inconsuete» (Ovidio, Metamorfosi, V, 504 e 501-503).

Dante Gabriele Rossetti, Proserpina (via Google Arts) Dante 

La legge delle Parche

Cerere si rivolge furente a Giove, padre di tutti gli dei e fratello di Plutone, il quale accetta che Proserpina torni a rivedere la luce ma a patto che non abbia infranto la legge delle Parche, che non abbia cioè ancora toccato cibo nel corso del suo soggiorno sotterraneo. 

In realtà, la giovane dea, non prevedendo le conseguenze, aveva già mangiato sette chicchi di un melograno raccolto in giardino (533-541):

At Cereri certum est educere natam.
Non ita fata sinunt, quoniam ieiunia virgo
solverat et, cultis dum simplex errat in hortis,
Poeniceum curva decerpserat arbore pomum
sumptaque pallenti septem de cortice grana
presserat ore suo. Solusque ex omnibus illud
Ascalaphus vidit, quem quondam dicitur Orphne,
inter Avernales haud ignotissima nymphas,
ex Acheronte suo silvis peperisse sub atris:
vidit et indicio reditum crudelis ademit.
[...] Cerere intendeva portar via sua figlia,
ma il fato non lo consentiva perché Proserpina aveva rotto il digiuno,
e ingenuamente, mentre si aggirava per l’orto,
aveva colto da un ramo chino un melograno,
e ne aveva inghiottito sette granelli,
staccandoli dalla livida buccia; il solo a vederla
fu Ascalafo che, si dice, nacque un tempo da Orfne
– non la meno famosa tra le Ninfe d’Averno –
che lo partorì in una selva oscura al suo Acheronte.

La punizione di Ascalafo

Ascalafo rivela quello che ha visto, sebbene la sua denuncia sia superflua perché la violazione della regola imposta dalle Parche implica la pena immediata. 

Ma prima che questa sia compiuta, la regina dell’Averno scaglia la sua vendetta contro il testimone delatore e, cospargendolo con l’acqua del Flegetonte, altro fiume infernale, 

in rostrum et plumas et grandia lumina vertit

ne trasformò il capo in becco, gli diede penne e grandi occhi (545),
tramutandolo in un askalaphos, allocco o civetta. In pochi versi Ovidio, che giudica il suo castigo meritato (551), ne descrive vividamente la mutazione (546-550):
Ille sibi ablatus fulvis amicitur in alis,
inque caput crescit, longosque reflectitur ungues
vixque movet natas per inertia bracchia pennas:
foedaque fit volucris, venturi nuntia luctus,
ignavus bubo, dirum mortalibus omen.
Sottratto a se stesso, si avvolse in ali fulve,
ingrossò nella testa, ritrasse le unghie allungate,
mosse a fatica le penne spuntate sulle braccia inerti,
divenne un uccellaccio di cattivo augurio per gli uomini,
il pigro gufo, messaggero dei futuri lutti.

(trad. da A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, Zanichelli 2010)


Figlio dell’oscurità

La menzione più antica su Ascalafo figlio di Acheronte è quella del grammatico e poeta greco del III sec aev Euforione di Calcide in uno dei suoi difficili e per molti versi enigmatici frammenti (J. A. Clúa, Estudios sobre la poesía de Euforión de Calcis, 2005).

Nella Bibliotheca dello Pseudo-Apollodoro (II sec. ev) Ascalafo è figlio di Acheronte e Gorgira (Ἀσκάλαφος τοῦ Ἀχέροντος καὶ Γοργύρας, 1, 5, 3), ma si tratta dello stesso personaggio di Orfne, una ninfa del lago infernale i cui nomi significano “condotto” o “cunicolo sotterraneo” (γόργυρα) e “tenebre”, “notte” (όρφνη). 

in [ religione_romana ]

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