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Storia di Moloch, Signore del Fuoco

Avanzavano lentamente [i fanciulli], e , poiché il fumo che s’innalzava dal rogo formava alti vortici, così, visti da lontano, parevano svanire dentro una nube. Nessuno di loro si muoveva, poiché erano legati ai polsi e alle caviglie; il velo nero che li avvolgeva impediva loro di vedere e alla folla di riconoscerli» (Gustave Flaubert, Salammbô, 1862). Ad uno ad uno, i bambini cadevano tra le braccia della statua raffigurante il terribile dio, nel fuoco.

Moloch raffigurato in The Union Bible Dictionary, Philadelphia-New York 1837, via Internet Archive.

Tra Israele e Cartagine

L’ipotesi che presso i cartaginesi si operasse l’immolazione di bambini in onore del dio Moloch è stata ampiamente diffusa da tutto un filone letterario – dalla polemica anticartaginese delle fonti classiche alla narrativa contemporanea. Alla luce degli studi, tuttavia, e di recenti risultanze archeologiche e indagini mediche, si è costretti a rimettere in discussione che si siano mai verificati riti cruenti nonché l’esistenza dello stesso Moloch.

Vi sono due tipi di testimonianze: le fonti orientali (bibliche), principalmente letterarie, di ambiente siro-palestinese e la documentazione archeologica ed epigrafica occidentale (punica); tra le due, l'unica relazione è costituita da un nome ricorrente, mlk, che negli studi biblici è stato interpretato come il nome di un dio cui venivano tributati sacrifici umani di «figli e figlie» attraverso un «passaggio per il fuoco», finché la scoperta delle stesse consonanti nel mondo punico ha obbligato a rimettere in discussione la stessa lettura del mlk biblico come nome divino.

Le fonti 

Nel celebre passo tratto da Salammbô si descrive un rito per placare l’ira degli dèi e riuscire a esorcizzare la distruzione della città: il Consiglio degli anziani e il sacerdote di Moloch ottengono il consenso da parte della comunità a immolare i propri figli per «placare l'appetito del dio». Flaubert traspone nel romanzo una informazione che era nota attraverso le fonti classiche e, per certi versi, dall’Antico Testamento. Tra i riferimenti al dio fenicio nell’AT: «Non darai ituoi figli perché vengano offerti a Moloch» (Lev, 18,21); «Chiunque tra gli Israeliti o tra i forestieri che soggiornano in Israele darà qualcuno dei suoi figli a Moloch, dovrà essere messo a morte» (Lev, 20,2); «E costruirono le alture di Baal nella valle di ben-Hinnòn per far passare per il fuoco i loro figli e le loro figlie in onore di Moloch» (Ger, 32,35); «Giosia profanò il Tofet, che si trovava nella valle di ben-Hinnòn, perché nessuno vi facesse passare ancora il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore di Moloch» (2Re, 23,10). A una pratica sacrificale cruenta dove le vittime erano bambini si può inoltre riferire il passo di 2Re, 3,27, quando il re Moab, assediato, offre il suo primogenito «in olocausto».

Tra le fonti classiche, la principale è offerta da Diodoro Siculo il quale, presentando il dio di Cartagine nella veste greca di Kronos (che nel mito esiodeo divora i suoi figli), aprì senz’altro la strada a un’interpretazione cruenta del rito punico.
I cartaginesi avevano una statua bronzea di Kronos, con le mani tese e piegate verso terra, con la palma volta in alto, di modo che il fanciullo che vi veniva posato sopra rotolava, precipitando in un baratro pieno di fuoco (XX, 14).
Dal Seicento fino almeno alla fine dell’Ottocento, con le analisi di Wolf Wilhelm Baudissin (Jahwe et Moloch: sive de ratione inter deum Israelitarum et Molochum intercedente, Leipzig 1874), la tendenza prevalente degli studi era di ammettere che il culto di Moloch fosse una forma di sacrificio umano praticato nella fase più antica della storia di Israele, ai tempi dei Patriarchi e di Mosè, fino alla riforma di Giosia che pose le basi per una “ortodossia yahwista” e per una progressiva differenziazione di Jahweh da Moloch. Con Bauddisin, invece, si fa strada l’ipotesi che l’origine di Moloch e del suo culto potesse avere radici estranee all’area – pure semitica – di Israele, orientandosi piuttosto verso quella fenicia: la radice mlk sarebbe infatti, secondo lo storico delle religioni, alla base di molti nomi divini di quell’area, tra cui Melqart di Tiro; per Melqart, dai greci identificato con Eracle, si celebrava a Tiro fin dall’epoca più antica una vera e propria festa di resurrezione. Eroe culturale e fondatore, antenato tutelare della città di Tiro e dei suoi traffici, Melqart era detto anche “signore del fuoco”, poiché il mito riporta la sua morte cruenta tra le fiamme di una pira.

La connessione con l’area fenicia sarebbe attestata anche da alcune fonti classiche come Filone di Biblo, il quale a sua volta si avvale di testimonianze più antiche (in particolare Eusebio, Praeparatio evangelica, I, 10,45; IV, 16,11): «[in caso di pericolo] i capi della città votavano al sacrificio i più cari dei loro figli come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di cerimonie misteriose». Come per la vicenda di re Moab, tuttavia, manca il riferimento al “passaggio per il fuoco” e si tratteggia semmai un rito eseguito in caso di estrema crisi della comunità, perciò eccezionale e occasionale.

Gli scavi

Tra Otto e Novecento proseguono gli studi e si continua a indagare su una connessione tra il culto di Moloch e pratiche di riti cruenti nell’antica Israele, per dedurne (in maniera che si rivelerà del tutto errata) che Moloch, e addirittura l’ugaritico Baal, fosse un nome alternativo di Jahweh. Dagli anni Venti del XX secolo sarà l’archeologia a fare luce sulla questione: e mentre gli scavi in Palestina non riportano nessuna traccia di sacrifici umani, più fruttuosi sono quelli a Cartagine, nell’Africa settentrionale, dove già erano state riportate alla luce steli votive in pietra recanti dediche a Tanit e a Baal Hammon.

Nel 1921 si scopre l’area da cui le steli provengono: un santuario a cielo aperto nel quale, una affianco all’altra, vengono ritrovate migliaia di urne contenenti ossa bruciate di bambini; quest’area per reminiscenza biblica verrà chiamata tofet. In seguito alle scoperte archeologiche e agli studi epigrafici condotti sulle stele votive, si arriva a mettere in relazione la radice semitica mlk (vocalizzato, probabilmente, in molk), riscontrata nei passi biblici e che le traduzioni antiche rendono con “Moloch”, con il vocabolo mlk presente in molte iscrizioni sulle steli cartaginesi: mlk non designerebbe un dio, bensì il rito stesso, con l’indubbio significato di “offerta”. Una scoperta rivoluzionaria, che metteva in discussione non solo le conoscenze sulla cultura fenicio-punica, ma anche l’immensa mole degli studi biblici: Moloch non sarebbe mai esistito.

L’ipotesi, formulata per la prima volta da Otto Eissfeldt nel 1935 (Molk als Opferbegriff im Punischen und Hebräischen und das Ende des Gottes Moloch), fu favorevolmente accolta dai biblisti i quali, già intenti ad avvalorare l’ipotesi di un’origine straniera del crudele dio, furono ben disposti ad accettarne l’estraneità rispetto alla Palestina, ma non altrettanto convinti erano gli studiosi dell’area fenicia orientale: se il mlk delle steli puniche designava il rituale piuttosto che il suo destinatario divino, ciò non toglie che i nomi di alcune divinità siro-palestinesi sono effettivamente composti dalla radice mlk, “regnare”, tra cui lo ctonio Malik, che ebbe parte notevole nel culto popolare di Ebla (seconda metà del III millennio), a Mari (prima metà del II millennio) e a Ugarit (seconda metà del II millennio).

Rimanevano inoltre irrisolti altri interrogativi. Se infatti la radice mlk designava, tanto nelle steli puniche quanto nei passi biblici, un’offerta piuttosto che una divinità, alcuni brani ritradotti secondo la nuova interpretazione non avevano più senso, come in Lev, 20,5, in cui Yahweh dice: «strapperò di mezzo al popolo lui e tutti i traviati che dietro a lui si prostituiscono a Moloch», dovendosi supporre che del presunto fraintendimento fossero responsabili più autori e traduttori che pure dovevano avere gli strumenti linguistici per conoscere il vero significato del termine. Cadeva definitivamente, invece, l’identificazione Moloch-Yahweh, soprattutto sulla base della diversa locazione dei rispettivi culti: nella valle di ben-Hinnòn il primo (o Ennon, da cui il termine Gehenna, l’“inferno” di fuoco e zolfo) e al tempio di Gerusalemme il secondo.

Restavano inoltre da spiegare altri dati, ricavati dagli scavi archeologici: a Cartagine come a Mozia (Sicilia) e a Sulcis (Sardegna) esistevano dei recinti a cielo aperto che ospitavano migliaia di urne contenenti ossa di bambini, soprattutto appena nati o in stadio ancora fetale. Una pratica, quella dell’infanticidio sistematico, che, se confermata, sarebbe davvero unica nel contesto delle religioni vicino-orientali e delle culture mediterranee.

Il rito e gli dèi

I tofet sono aree delimitate da recinzioni, poste fuori dall’abitato e sorte – tranne una sola eccezione – su terreno vergine e, a differenza delle necropoli, ve ne era uno solo per ogni città. Il più grande e importante è senz’altro quello dedicato alla dea Tanit “volto di Baal”, a Cartagine. Le urne contengono ossa incenerite di bambini per lo più neonati o di età prenatale, bruciati in un rogo insieme a piante resinose e a volte piccoli animali: i tofet sarebbero quindi i cimiteri dei bambini, le cui sepolture compaiono in numero scarso nelle normali necropoli. Ma si trattava veramente di infanticidio di massa? E inoltre, se la posizione dei corpi e la presenza di un rogo fanno escludere che i tofet fossero semplici necropoli infantili, ma un luogo in cui si celebrava un rito, di quale rituale si trattava?

Al primo problema sono state date diverse risposte. Il numero ingente di urne cinerarie farebbe pensare a un rituale sistematico, protratto nel tempo, e non occasionale ed eccezionale come testimoniato dalle fonti antiche. Nell’area vicino-orientale, in particolare mesopotamica e siro-palestinese, dal III millennio in poi è attestato un culto al dio Malik che aveva caratteristiche legate all’oltretomba ed era connesso con gli spiriti dell’aldilà chiamati rpum nei testi di Ebla e Mari, ma la tesi del sacrificio umano non è più sostenibile dagli anni Sessanta del Novecento, quando cioè è stato possibile integrare conoscenze storiche, epigrafiche e archeologiche con gli strumenti della scienza medica e dell’antropometria, in particolare le analisi delle ossa. Già nel 1950 il Rohn, dell’Istituto di Medicina legale di Lille, dimostrava che le ossa umane presenti nelle urne appartenevano a individui la cui età varia dai cinque mesi di vita intrauterina a poche settimane dopo la nascita. Negli anni Ottanta nuove indagini mediche lo confermano: si tratterebbe – per quanto rimanga difficile un giudizio sulla base di dati statistici – di individui che non hanno raggiunto i nove mesi di vita prenatale o al massimo di due mesi dopo la nascita e i bambini, neonati o feti, erano già morti al momento dell’incenerimento. Se non di un’immolazione, resta da capire ancora che tipo di rito fosse.

Conclusioni

La connessione tra mondo biblico e quello punico sorgeva quindi dalla analogia del rito: nel primo la consacrazione sacrificale – eccezionale e sporadica –, nel secondo la presunta uccisione sistematica di migliaia di bambini. In entrambi i casi, elemento comune è il fuoco. Non convince più nemmeno la testimonianza (tardiva) dei classici (Diodoro Siculo e Filone di Biblo), verosimilmente già impegnati in una “campagna anticartaginese”, tenendo anche conto del fatto che gli autori più antichi (Erodoto, Tucidide, Polibio, Livio) non riportano alcuna notizia al riguardo. Si tenga conto, infine, della connessione con il mondo fenicio dove, soprattutto nell’area siro-palestinese prossima a quella ebraica, si celebrava un dio Malik cui probabilmente venivano offerti sacrifici umani, ma limitati.

Le recenti analisi osteografiche hanno poi rilevato che i bambini sepolti nei tofet dovevano essere già morti di morte naturale prima di essere bruciati, e non uccisi in un rito collettivo.

Va aggiunto che il motivo della morte nel fuoco doveva avere, nel mondo fenicio-punico, un significato specifico, immortalante: il generale Amilcare, comandante dell’esercito cartaginese nella battaglia di Imera, sconfitto si gettò nel rogo insieme alle vittime offerte agli dèi; e ancora Sofonisba, moglie di Asdrubale, che guidò l’ultima resistenza cartaginese contro i romani, morì suicida con i figli nel tempio di Eshmun. Nello stesso mito di fondazione di Cartagine (lo riporta anche Virgilio nell’Eneide) la regina Elissa/Didone muore suicida sulla pira, quando vede Enea allontanarsi per sempre. Il rituale del fuoco, nel caso dei tofet, potrebbe essere quindi servito a giustificare la morte prematura dei piccoli protagonisti e a destinarli a una sopravvivenza “accettabile” nell’aldilà, passando attraverso il fuoco.

Il “demone” Moloch

Il Livre Rouge, la cui prima edizione conosciuta reca la data 1940, è una raccolta di invocazioni agli Spiriti infernali comuni alla tradizione ebraica, cristiana e islamica, attribuito con quasi assoluta certezza a Jacques Dourcet-Valmore, bibliotecario archivista della provincia di Tolosa in Francia. Nella Seconda schiera demoniaca, comprendente i Principi dell’Inferno, è nominato Moloch, “Principe delle Lacrime”.

A cavallo delle due guerre mondiali l’antico Moloch veniva dunque recuperato a un orizzonte magico-occultistico in funzione di un “organigramma infernale” a cui prendevano parte diverse divinità pre o extracristiane della più diversa provenienza. Ecco la sua descrizione secondo il Libro Rosso:
Viene scarsamente evocato, a causa del grande tributo di vite innocenti che richiede in cambio dei suoi servigi. Al posto dei bambini, per calmarlo gli si può offrire il pianto delle madri, provocato con qualsiasi mezzo. L’aspetto di Moloch è quello di un uomo alto e potente, con la testa di vitello sormontata da una corona d’oro; i suoi poteri sono grandissimi, ma, curiosamente, la sua crudeltà sovente lo fa cadere nella stupidità più bestiale.
E questa è l’evocazione:
Grande Moloch, / grande Moloch, / tu che muggisci nella notte, / coperto da tanti moncherini! / Grande Moloch, grande Moloch, / tu che ridi beffardo nella fiamma, / al sordo crepitare delle rie ossa! / Io ti impongo di apparirmi: vieni, vieni!
Quel che rimane sono dubbi e lacune, poche le certezze. E, sebbene un “problema di coscienza” ci impedisca di attribuire a una cultura così vicina alla nostra un eccidio di infanti che non trova giustificazioni, resta, terribilmente suggestiva, l’immagine della statua di un dio sanguinario «dalle cui braccia scendevano nel fuoco i piccoli corpi innocenti dei fanciulli sacrificati».

Riferimenti

  • S. Moscati, Gli adoratori di Moloch: indagine su un celebre rito cartaginese, Jaca Book, Milano 1991.
  • P. Xella (a cura di), Archeologia dell’inferno, Essedue Edizioni, Verona 1987.
  • Il Libro Rosso, Fanucci, Roma 1987
Questo articolo è tratto da una pubblicazione (a mia firma) sulla rivista “Tales of Safarà”, n. 4, gennaio 2007, dell’ass. cult. Safarà, Laboratorio di Nuovi studi antropologici.

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