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La strega di Kilkenny

Anno del Signore 1324. Nella cittadina irlandese di Kilkenny, diocesi di Ossory, si scatena una successione di violenze e vendette che arrivano a coinvolgere la stessa Corte di Dublino e che ruotano attorno all’accusa di Alice Kyteler e della sua congrega; i più celebri temi dell’immaginario stregonesco ci sono tutti: un mondo notturno di calderoni dove vengono bolliti gli ingredienti più abominevoli, pozioni e veleni, polveri e unguenti, evocazioni e divinazione, infine il rogo; in filigrana, tutta una trama di questioni niente affatto sovrannaturali ma non meno esplosive come i rancori privati, le gelosie, le questioni famigliari e le inimicizie politiche tra Irlanda e Inghilterra.

William Bradley (1801-1857), A Lancashire Witch, via Art UK

La strega, i complici, i persecutori

Alice Kyteler (questo sembra essere il suo nome da nubile) proveniva da una buona famiglia anglonormanna da anni residente nella città di Kilkenny. La lapide di un suo antenato, Jose de Keteller, morto attorno al 1280, è tuttora conservata nella chiesa di Saint Mary, con un’iscrizione in franconormanno e in stile calligrafico cosiddetto lombardico. La dama doveva essere molto lontana dallo stereotipo della strega repellente (oppure era dotata di portentosi poteri di attrazione) dal momento che si portò all’altare ben quattro mariti.

Il primo marito fu William Outlawe di Kilkenny, banchiere, il secondo Adam le Blund di Callan e il terzo Richard de Valle; di tutti e tre si dice ella si sia sbarazzata grazie a pozioni velenose. Il quarto fu Sir John le Poer, cui si racconta abbia sottratto la vitalità dei sensi attraverso filtri e incantesimi.

Vescovo della diocesi di Ossory era al tempo Richard de Ledrede, frate francescano inglese di nascita, il quale dovette presto imparare che le cose non erano quiete come sembravano nel distretto che comprendeva quella piccola cittadina, se un intero tribunale dell’Inquisizione appoggiato da nobili e cavalieri iniziò a un certo punto a operare zelantemente contro una banda di streghe eretiche, a capo delle quali ci sarebbe stata la nostra Alice.

Secondo le accuse mosse ad Alice e alle altre imputate, esse avrebbero ripetutamente rinnegato la fede cristiana (compiuto riti magici) e le dottrine divulgate dalla Chiesa  per un mese o un anno, a seconda dell’importanza di quello che volevano ottenere, disertato la messa, evitata la comunione e l’aspersione con acqua benedetta, trascurato la venerazione del Corpo di Cristo, tratto responsi ed elargito consigli ottenuti dai demoni, offerto sacrifici ai demoni uccidendo o smembrando animali le cui parti avrebbero disseminato lungo gli incroci di certe strade come tributo a uno spirito chiamato il Figlio dell’Arte.

Fino all’estinguersi della fiamma

I registri accolgono confessioni e testimonianze: le “streghe” sono accusate di aver partecipato a incontri notturni in cui si imitava in modo blasfemo la liturgia cristiana e venivano anche emanate scomuniche alla luce di candele, rivolte tra gli altri ai propri mariti, nominando espressamente e toccandosi ogni parte del corpo dai piedi alla testa fino a che la fiamma non si fosse completamente consumata e gridando, infine, «Fi! Fi! Fi! Amen».

Allo scopo di provocare sentimenti di amore o odio e di causare morte e malattie, esse avrebbero fatto uso di polveri, unguenti e candele di grasso che componevano nel modo seguente: prendevano le interiora dei galli sacrificati ai demoni, alcuni orribili vermi, certe erbe non meglio specificate, unghie di cadavere, capelli, cervello e brandelli di sudario di bambini sepolti senza battesimo e altri abomini, cuocendo il tutto e recitando formule magiche su un fuoco di ceppi di quercia, in una pentola ricavata dal cranio di un ladro decapitato.

I figli che Alice ebbe dai suoi quattro mariti furono tra i suoi primi accusatori, ritenendola colpevole di averne provocato la morte con un lento e graduale stordimento dei sensi, per risucchiarne le energie vitali da destinare a se stessa e al suo figlio favorito, William Outlawe. La accusarono anche di aver ridotto il suo ultimo marito in uno stato di indebolimento tale da avergli fatto cadere tutte le unghie e i peli del corpo e senza dubbio sarebbe morto se, messo in guardia da una domestica, non si fosse convinto a impossessarsi delle chiavi della moglie e aprire certe casse in cui lei teneva le sue cose. John le Poer le trovò piene di orribili intrugli, che consegnò nelle mani del vescovo.

L’incubo di Alice

La donna era accusata di aver intrattenuto rapporti particolari, anche carnali, con un demone, o incubo, chiamato Robin o Figlio dell’Arte, dal quale ella stessa ammise di aver ricevuto i suoi poteri di strega. L’incubo le appariva sotto varie forme, a volte in sembianze di gatto o di cane dal lungo pelo nero, oppure di un uomo nero accompagnato spesso da altri due demoni, più larghi e bassi di lui, uno dei quali era solito recare con sé un bastone di ferro. Secondo altre fonti, il sacrificio agli spiriti maligni consisteva in nove galli rossi e nove occhi di pavone.

Alla luce della gravità di tali accuse, il vescovo scrisse al cancelliere d’Irlanda Roger Outlawe, che fu anche priore di Kilmainham, perché si procedesse all’arresto. Ma il cancelliere si oppose al vescovo, insieme a un gruppo di gentiluomini tra cui Sir Arnold le Pour, probabilmente un parente del quarto marito di Alice. Sir Arnold chiese anzi al cancelliere di ignorare il caso, che da parte sua rispose al vescovo che l’arresto sarebbe stato possibile solo dopo un processo e una scomunica di almeno quattro giorni.

Un braccio di ferro tra ragioni laiche e potere ecclesiastico

Ma il vescovo decise ugualmente di intervenire e intimò ad Alice, che si trovava a casa di suo figlio William, di comparire immediatamente in sua presenza. Lei fuggì e, sentendosi attaccata, accusò a sua volta suo figlio di eresia. Sir Arnold e William si recarono allora dal priore di Kells, presso cui si trovava il vesovo, supplicandolo di non procedere oltre e, poiché le preghiere sembravano inutili, Sir Arnold ricorse alla forza: il giorno dopo, il vescovo fu fermato ai confini della città di Kells da un gruppo di uomini armati, arrestato e condotto alle prigioni di Kilkenny. Questo fatto creò un enorme stato di agitazione in città; il prigioniero richiese i sacramenti e gli furono negati, mentre tutto il clero si accalcava su ogni lato dell’edificio innalzando al vescovo preghiere e canti ‒ uno dei quali, scritto da un domenicano, è stato riportato: «Blessed are they which are persecuted».

William informò Sir Arnold del clamore che l’evento aveva suscitato, il quale fu quindi costretto a concedere al prigioniero una maggiore libertà e la possibilità di trascorrere con i suoi amici il giorno e la notte. La prigionia durò diciassette giorni, e la prima cosa che il vescovo fece una volta libero fu citare nuovamente William Outlawe; fino a che Arnold le Poer decise di provvedere egli stesso all’arresto del vescovo, nel 1324, che dovette così presentarsi davanti alla Corte e al siniscalco.

La scena descritta ci lascia a bocca aperta: il vescovo avanza nella sala recando con sé i sacramenti in un vaso dorato, elevato verso il cielo, mentre proclama solennemente le proprie ragioni. Il siniscalco lo mette a tacere apostrofandolo come «vile, rozzo, scimmia, con quella porcheria che porta in mano».

Nel frattempo Alice

Qualche tempo dopo la donna, che fino a qui sembra aver fatto perdere le sue tracce, viene chiamata a comparire presso la Corte di Dublino alla quale si era infine rivolto il vescovo, dopo la bruciante umiliazione. E stavolta ebbe la meglio: Sir Arnold le Pour fu dimesso e costretto a chiedere perdono; i due si scambiarono un bacio forzato di riappacificazione davanti ai cardinali e agli arcivescovi riuniti e questo ancora non gli bastò perché il suo scopo, la sua ossessione era chiedere al cancelliere di Dublino, al vicario generale e all’arcivescovo l’arresto di Alice la strega.

La troviamo fuggire una seconda volta diretta in Inghilterra dove, sembra, passò indisturbata il resto dei suoi giorni. Vennero però arrestati coloro i quali erano ritenuti essere i suoi complici; ce ne restano i nomi: Robert di Bristol, un impiegato, John Galrussyn, Ellen Gallrussyn, Syssok Gallrussyn, William Payn de Boly, Petronilla di Meath, sua figlia Sarah (altrove chiamata anche Basilia), Alice moglie di Henry Faber, Annota Lange e Eva de Brownestown.

Tornato a Kilkenny da Dublino, il vescovo de Ledrede ascoltò soddisfatto le confessioni dei prigionieri, i quali si trovavano tutti d’accordo su una cosa: Alice era il capo della loro congrega. Inoltre, Ledrede mosse a William l’accusa di eresia, favoreggiamento e difesa di eretici, nonché usura, spergiuro, adulterio e clericidio. Il 2 luglio del 1324 il vescovo organizzò solennemente un rogo nella piazza della città e gettò tra le fiamme dei sacchi contenenti polveri magiche, resti umani, capelli, vermi e unguenti vari. In quanto a William, dovette presentarsi in ginocchio davanti al vescovo che gli impose, per punizione, di ascoltare tre messe al giorno per un anno, provvedere al sostentamento dei poveri e ricoprire di piombo il presbiterio e il campanile est della cattedrale di S. Canice. Ma William dovette stancarsi presto di provvedere agli ordini del vescovo, motivo per cui lo troviamo di lì a poco di nuovo incarcerato.

Di quanto accadde ai complici di Alice nom sappiamo molto. Sembra che Petronilla fosse diventata una sorta di capro espiatorio per le colpe della latitante padrona; il vescovo la fece frustare sei volte, e sotto tortura confessò di aver praticato la magia, di aver sacrificato al Figlio dell’Arte e di aver fatto divinazioni, di essere lei stessa maestra di arti nere e che William meritava la morte quanto lei, perché era anche lui un maestro dell’arte e aveva indossato la “cintura del Diavolo” (strumento magico usato per vari scopi, che Bosc nel suo Glossaire del 1910 fa derivare da certe cinghie magnetiche) per un anno e un giorno. Quando in casa di Alice furono ritrovate ostie con sopra inciso il nome del Diavolo e unguenti con cui si cospargeva il corpo per partecipare agli incontri notturni, Petronilla fu condannata unanimemente a essere bruciata viva; l’esecuzione solenne ebbe luogo a Kilkenny il 3 novembre del 1324: si tratta del primo rogo per eresia consumato in Irlanda.

Epilogo, plasmare la paura

Si ignora se anche altri compagni di Petronilla e Alice siano stati condannati a morte, ma questo rogo sembra segnare l’inizio, in Irlanda, di una lunga serie di esecuzioni e punizioni variabili a seconda del grado di colpevolezza. Arnold le Poer, che tanta parte aveva avuto in tutta la vicenda, fu il successivo bersaglio della vendetta del vescovo. Pur protetto dal priore di Kilmainham, Sir Arnold fu scomunicato e morì in prigione nel 1331; il suo corpo giacque insepolto per lungo tempo. Qualche anno più tardi, de Ledrede fu a sua volta accusato di eresia da parte del prelato Alexander de Bicknor ed esiliato dalla sua città, dove ritornò, riacquistati i favori reali, nel 1339. Terminò la propria vita e il suo lungo e disordinato episcopato nel 1360 e fu sepolto nella cappella di S. Canice sul lato nord dell’altare maggiore; un’effigie fu appoggiata sul baldacchino della finestra ogivale, a contrassegnare il luogo di riposo di questo turbolento vicario di Cristo.

Da questo documento traspare tutta la tensione dei rapporti tra Stato e Chiesa nell’Irlanda del XIV secolo. Pur non attirando le nostre simpatie e parendoci anzi arrogante, dispotico e tiranno ‒ non è nostro compito d’altra parte dare giudizi o trarne storielle edificanti ‒, Ledrede era uomo del suo tempo e il suo habitus era conforme a quello che ci aspettava da lui. Al soglio pontificio sedeva allora papa Giovanni XXII, del quale sono conosciute le idee in merito alle pratiche magiche: era infatti convinto che i suoi nemici attentassero alla sua vita plasmando figure in cera che lo ritraevano, infilzandovi poi spilloni e pinze, che gli inviassero demoni per tormentarlo e altre “stregonerie” del genere. È comprensibile quindi che abbia cercato di rafforzare quanto più poteva gli ingranaggi dell’Inquisizione, fornendo una adeguata ispirazione per la condotta dello zelante vescovo di Ossory e dando una grossa spinta all’idea della effettiva realtà dei poteri magici, fino a identificare l’accusa di stregoneria con quella di eresia, con l’applicazione delle stesse pene: il rogo e la confisca dei beni.

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La vicenda è descritta in J. D. Seymour, Irish Witchcraft and Demonology, Dublin 1913; il brano era stato pubblicato (qui riveduto e aggiornato) a mia firma in “Tales of Safarà”, rivista dell’ass. cult. Laboratorio di nuovi studi antropologici, n. 1, marzo-aprile 2006.

Gli atti del processo contro Alice Kyteler sono custoditi al British Museum, tra le pubblicazioni della Camden Society di Thomas Wright in cui occupano più di quaranta pagine. Altre informazioni si possono trovare in Transaction of the Ossory Archaeological Society, vol. I (1869), e in History of the Diocese of Ossory, vol. I (1905).

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