Passa ai contenuti principali

Francesco Petrarca e la ricerca dell’ultima Thule

Primo poeta moderno, padre dell’Umanesimo, di Petrarca (1304-1376) raramente si ricorda la passione per i viaggi, che gli valse l’appellativo di peregrinus ubique (pellegrino ovunque) e “l’irrequieto turista”, e grazie ai quali acquistò una conoscenza non comune al suo tempo in fatto di cartografia e geografia. Questo aspetto era ben noto ai contemporanei, per i quali fu, anche per questo motivo, un’autorità intellettuale indiscussa. Attento osservatore, egli offre nel De vita solitaria una testimonianza “di prima mano” sulla (ri)scoperta e colonizzazione dell’isola Fortunata avvenute nella metà del XIV secolo, come Boccaccio farà in De Canaria.

Ritratto di poeta, forse Petrarca, 1500-25, via The Walter Museum

Il poeta in viaggio tra metafora e realtà

Petrarca fu tutt’altro che un viaggiatore passivo, semplice osservatore che si limitava a registrare avvenimenti riconducibili alla nascita geografica del Nuovo Mondo. Egli possedeva un’alta autoconsapevolezza della propria posizione nel tempo e nello spazio e una piena coscienza delle distanze che lo separavano dai luoghi, visti o sognati, e ne sapeva padroneggiare il lato retorico quanto quello ideologico. 

Il suo contributo poetico alla percezione e alla riorganizzazione del concetto di spazio alle soglie del Quattrocento, in particolare nell’area mediterranea italo-francese con le sue specificità e discontinuità culturali, è un vero e proprio lavoro di mediazione: fatta propria filologicamente la concezione augustea di spazio, egli contribuisce alla transizione tra la geografia politica romana classica a una nuova, moderna rappresentazione dello spazio. 

Una di queste “appropriazioni letterarie” è l’interesse e l’approfondimento, divenuti via via ricerca affannosa, verso tutte le testimonianze classiche e contemporanee che riguardassero quell’isola misteriosa e lontanissima chiamata da Virgilio ultima Thule.

e voi tutti, dei e dee cui spetta proteggere i campi [...]; e tu anzitutto, o Cesare [Ottaviano Augusto divinizzato], [...] sia che tu venga come dio dell’immenso mare, sicché ti onorino i naviganti come loro unico nume e ti si asservi l’estrema Thule [tibi sérviat última Thúle] e ti accolga Teti con tutte le onde...

(Virgilio, Georgiche, vv. 21-30, via Biblioteca dei Classici Italiani

Senza tema di immodestia, in alcune lettere contenute nelle Familiares Petrarca si compiaceva di paragonare sé stesso e la sua alta reputazione a quella dei grandi viaggiatori del passato come Odisseo, spiegando il desiderio di viaggiare con la nobiltà d’animo che gli era propria. 

Tuttavia, questo nobile interesse è utilizzato da Petrarca anche come copertura retorica, un espediente per occuparsi d’altri temi, a lui cari, di natura politico-strategica.

Mappa del Vinland, oggi Terranova, da una Mappa Mundi del XV secolo, trascrizione di un originale del XIII. Se fosse realmente autentica, questa cartina sarebbe la prima conosciuta in cui viene tratteggiata la costa delle Americhe settentrionali prima del viaggio di Colombo del 1492. Si nutre però il dubbio, confermato da esami al carbonio, che si tratti di un falso, una redazione su pergamena invecchiata del XX secolo. Via Brookhaven National Laboratory bnl.gov.

La fuga dal tempo, la vanità delle cose

Una conoscenza esemplare «qual più diversa et nova» di popoli e paesi, di cartografia e geografia umana e politica egli l’acquisì attraverso uno studio e una riscoperta filologica, davvero in senso moderno, dei geografi latini anche cosiddetti minori, da Pomponio Mela a Vibio Sequestre. 

Dai greci imparò la prospettiva di un punto di vista “altro” rispetto al paesaggio famigliare, lo affascinava il modo in cui, ad esempio, agli occhi di Omero le terre d’Italia si situassero, esotiche e remote, ai “margini” del reale: le Eolie, il lago Averno, il monte di Circe...

L’intero corpus delle lettere Familiares, raccolte nel pieno della carriera tra il 1349 e il 1351, si incentra sul tema del viaggio, della conoscenza e descrizione di paesi e popoli, delle scoperte, della curiosità, anzi ne è il principale progetto epistolare. E inoltre amicizia e amore, religione, politica, antichità e letteratura, storia, cultura, libertà intellettuale, solitudine... la materia di queste lettere è davvero molto varia.

In questa raccolta, i viaggi di gioventù attraversano un processo mitizzante, vi si aggiungono elementi di finzione per renderne la memoria più suggestiva; l’autore era d’altronde in una fase di profonda riconsiderazione delle proprie esperienze, all’indomani del suo definitivo rientro in Italia tra il 1347 e il 1353. Nell’incertezza se accettare o meno la corona d’alloro, massimo riconoscimento letterario, offertagli contemporaneamente una dal Senato di Roma, l’altra dall’Università di Parigi, decise di riceverla in Italia e non in Francia.

Mirabilia e lunghe distanze

Intorno al 1350 Petrarca acquisisce una copia della Storia naturale di Plinio, e sembra intensificarsi in lui il desiderio di dare di sé l’immagine e guadagnare la reputazione di grande ed eroico conoscitore di luoghi anche molto lontani, persino ai confini della terra. 

Arriviamo a Thule: Petrarca ne parla in una lettera, la VIII del libro undicesimo (Lettere, delle cose familiari, Le Monnier 1863) indirizzata ad Andrea Dandolo della Repubblica di Venezia; invitandolo a desistere dalla guerra con Genova e ad abbandonare l’intenzione delle armi, gli promette una fama che arriverà fino «alla famosa e incognita Thile, agli estremi confini dell’Iperboreo mondo».

Il poeta dovette fare vela verso Thule negli anni Trenta del Trecento, anche se è difficile tracciare una mappa esatta di tutti i suoi viaggi: accenna, ma oscuramente, di aver costeggiato i lidi di Spagna, di aver navigato l’oceano e ancora, come sembra, di esser giunto in Inghilterra, ma di ciò non ha lasciato più esatta contezza (G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, 1826).

Estrema Thule

La lettera 1 del libro III delle Familiares è indirizzata a Tommaso di Messina ed è di molto posteriore alla data fittizia con la quale l’autore la firma, il 1333. Il poeta presenta sé stesso nell’atto di scrivere 

dal lido del mar Britannico, molto vicino (secondo che dicono) all’isola che noi cerchiamo.

Si tratta di Thule, la remota e fascinosa isola del nord la cui identificazione è incerta, tra la Scandinavia, l’Islanda e la Groenlandia.

Petrarca si immagina lì, su quei lidi, volto a saggiare con lo sguardo l’orlo del mare. Anche lui cerca Thule (secondo la sua trascrizione, Tile o Thile): raccoglie informazioni “sul campo”, unite agli studi dei classici che ne riportano notizie da Seneca a Virgilio, in apertura delle Georgiche, e dopo di loro «Boezio e tutta la schiera degli scrittori»; curiosamente, di questa terra ne parlano solo gli studiosi mentre il popolo sembra ignorarne persino l’esistenza. Tuttavia si è concordi nel collocarla a occidente.

Quando Petrarca incontra ad Avignone Riccardo di Bury, uomo di rinomata cultura e appassionato bibliofilo, che era lì su incarico del re Edoardo III d’Inghilterra, coglie l’occasione di domandare anche a lui. Il vescovo di Auckland promette che avrebbe controllato tra le sue carte quando fosse tornato a casa, ma, con aperta delusione da parte del nostro, non si è fatto più vivo. E così nessuna notizia su Thule gli giova la conoscenza di quell’inglese. 

Poi entra in possesso di un libello di tal Giraldo cortigiano di Enrico II, il quale afferma che esistono delle isole sparse nell’oceano boreale intorno alla Bretagna e l’estremo confine occidentale, di cui Thule sarebbe la più distante, la «Thule dannata, sotto l’iperborea stella» ‒ secondo l’opinione di Orosio a conferma di quella di Claudiano ‒, tra settentrione e ponente, al di là dell’Irlanda e delle Orcadi.

Petrarca non si dà pace, non si spiega come mai un luogo così conosciuto dai più dotti sin dagli antichi Greci che la identificarono con gli Iperborei (anzi egli testimonia di averne sentito parlare persino tra gli abitanti dell’India) possa essere altrettanto vago. Eppure non la trova quell’isola, né tra le carte, né all’orizzonte. 

Plinio sembra certo: si trova a sei giorni di navigazione verso nord dalla Bretagna, così anche Pomponio Mela, nella sua descrizione degli inverni senza alba e delle estati senza tramonto; eppure, se qualcuno ci fosse realmente stato, vi sarebbero notizie più dettagliate e precise sulla rotta. Tanta si è fatta vana la ricerca, che ormai Thule gli appare «difficile da trovare come la verità». 

Con rassegnazione conclude:

Resti pur celata Tile a Settentrione, e la sorgente del Nilo a Mezzogiorno, purché celata non rimanga la virtù che fra gli estremi è nel mezzo, e il corto viaggio di questa vita su cui palpitando e dubitando la maggior parte degli uomini a fine incerto per ambiguo sentiero camminando si affretta, e non ci diamo troppa pena nella ricerca di un luogo che forse, trovato, saremmo desiderosi di abbandonare.

(Cfr. T. J. Cachey jr., Petrarchan Cartographing Writing, in S. Gersh, B. Roest, Medieval and Renaissance Humanism. Rhetoric, Representation and Reform, Brill, 2003, pp. 73 ss.; Le epistole di Francesco Petrarca, a cura di M. Smetryns, Ghent University Library.)

Commenti

Articoli correlati